I produttori discografici e la branding revolution nella musica pop

Qualcosa di rivoluzionario sta avvenendo nella musica pop contemporanea, e non si tratta (almeno non soltanto) di un rinnovamento dal punto di vista compositivo, di sound, di lyrics, ma in primo luogo di un cambiamento a livello di branding, che sta modificando in buona parte il modo in cui la musica è cercata, fruita, annunciata alla radio. Ed è una tendenza che con tutta probabilità si intensificherà negli anni a venire.

Cosa sta succedendo? Sta emergendo, agli occhi del grande pubblico che ascolta musica, una figura che, sin dall’inizio della discografia, ha sempre agito dietro le quinte: quella del produttore discografico. Sapete cosa fa esattamente un produttore discografico? Se avete più di 40 anni come me probabilmente no; se ne avete di meno, siete fan del Dr. Dre e avete visto documentari come The Defiant Ones su Netflix, sicuramente sì e vi sembrerà impossibile che qualcuno possa ancora non saperlo. Il produttore discografico è chi, nel corso della produzione di un disco, prepara e guida gli artisti prima delle registrazioni, supervisiona le sessioni di recording in studio, definisce l’ingegneria del suono, coordina o esegue direttamente il mixaggio e il mastering. Il suo ruolo si è evoluto pesantemente nel corso dello sviluppo dell’industria discografica e, a metà degli anni Cinquanta, il produttore è passato da persona a libro paga delle etichette a soggetto indipendente: se fino ad allora i compiti di produzione erano per lo più suddivisi tra varie figure come gli A&R, parolieri, ingegneri, dagli anni Cinquanta in poi i produttori indipendenti accentrarono la gran parte dei compiti su di sé, occupandosi addirittura della scrittura ed esecuzione di parte dei brani.La loro impronta stilistica influenzava profondamente il sound delle produzioni musicali tanto da determinarne il successo. Anche chi ha più di 40 anni conosce Sir George Martin, il produttore dei Bealtes, forse il primo vero produttore iconico del XX secolo, prima al soldo di Emi Records e poi produttore indipendente dell’enorme fortuna, responsabile del sound classico che è stato la firma inconfondibile di molti brani della band di Liverpool, come Eleanor Rigby o Penny Lane.

Arriviamo a oggi. Veri e propri registi della produzione di un disco, i produttori di maggior successo sono diventati oggetto dell’interesse dei cantanti da un lato e delle etichette discografiche dall’altro: individuano e scelgono i talenti, creano hit, diventano essi stessi artisti e vere e proprie celebrity, ricche, famose, iconiche. Eccone alcune che, se non le conoscete direttamente, potete sottoporre ai vostri figli: Trevor Horn, Mark Ronson, Rick Rubin, Nigel Godrich, Jimmy Iovine, il già citato Dr. Dre, e ancora dall’hip-hop Scott Storch, Timbaland, Pharrell Williams e dal mondo dei DJ David Guetta e Calvin Harris. Anche in Italia abbiamo i nostri produttori alla ribalta; i più importanti sono senza dubbio Takagi e Ketra che hanno firmato direttamente successi e tormentoni come L’Esercito del selfie featuring Arisa e Lorenzo Fragola, Amore e Capoeira featuring Giusy Ferreri e Sean Kingston e sono dietro la nascita della superband I Barbooodos (Jovanotti, Tommaso Paradiso e Calcutta) con la hit La luna e la gatta.

Cosa succede allora a livello di branding e quindi di naming nel mondo musicale e non solo? Due cose principalmente:

La prima riguarda il nome delle canzoni della musica pop contemporanea. Il passaggio determinante qui è che l’autore del brano, quando il produttore conta, è il produttore stesso ed è quindi lui che firma la canzone: il cantante rimane solo l’oggetto del featuring e i titoli delle canzoni si allungano. Prendendo il caso del solo Mark Ronson, ecco che abbiamo nell’ordine: l’attualissima Mark Ronson featuring Miley Cyrus - Nothing Breaks Like a Heart, l’interminabile Mark Ronson featuring Bruno Mars - Uptown Funk; l’intramontabile Mark Ronson featuring Amy Winehouse – Valerie. Chi è prevalente? Il cantante? Il produttore? Come cercherà la canzone il grande pubblico per ascoltarla e comprarla? La confusione aumenta e la vita alla radio, che – udite udite – ha ancora un ruolo centralissimo nella promozione musicale, diventa impossibile. E se il produttore è anche cantante? Ecco allora (semplicemente) Happy di Pharrell Williams, che ha improvvisamente bypassato in toto il cantante occupandosi anche della parte esecutiva.

La seconda conseguenza a livello di branding è che c’è una nuova celebrity che va innanzitutto sostenuta con una strategia di personal branding precisa, tale da fare luce interamente su di lei. In primo luogo Pharrell, se noto come produttore, non lo è come cantante (o almeno era quando il suo primo brano come cantante è uscito) e rispetto al pubblico generico la sua popolarità è tutta da costruire, con grandi investimenti. Poi Pharrell è un produttore/cantante, sì, ma è anche una icona di stile, oltre che un imprenditore illuminato e la sua immagine va valorizzata a livello di mercato. Dalle figure dei produttori di successo sono nate le più svariate operazioni commerciali (di quelle che riguardano Pharrell abbiamo parlato lungamente). La più celebre, anche e soprattutto perché sganciata dai prodotti più evidenti come quelli della moda e in linea con la produzione musicale, è la creazione delle cuffie audio Beats by Dr. Dre da parte di Dre, appunto, e dell’amico produttore Jimmy Iovine. Pensate che sia una cosa da poco? Dopo un esordio di incredibile successo, il 28 maggio 2014 Apple ha acquisito la società Beats per 3,2 miliardi di dollari; si è trattato della seconda acquisizione più grande da parte dell’azienda di Cupertino e, come effetto collaterale, i due geniali produttori sono entrati nell’organico della società della mela per lanciare la piattaforma di streaming Apple Music.

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