Non di solo vino: perchè è fondamentale scegliere il nome giusto per vendere vino italiano all’estero (e soprattutto in Cina)

Per chi si occupa di vino, sono dati noti: l’export italiano di vino supera ormai il 50% del valore della produzione, a sua volta detentore nel 2016 del record di vendite in assoluto pari a 5,6 mld di euro (Il Sole 24 Ore). Nei Paesi extra UE si registrano picchi mai visti: secondo l’ultima analisi dell’Osservatorio Paesi terzi di Business Strategies e Nomisma Wine Monitor, per la prima volta la domanda extra UE supera e stacca la domanda comunitaria, a quota 56% sul totale delle vendite; i Paesi in testa alla classifica dei compratori sono Usa, Svizzera, Canada, Russia, Giappone, Norvegia e Cina, il Paese che in assoluto, per dimensioni e trend di crescita, rappresenta una promessa e una sfida da cogliere.

In buona sostanza, chi produce vino in Italia non può prescindere dal mercato internazionale, qualsiasi tipo di vino sia: dal prosecco, al chianti, gli stranieri comprano e apprezzano. Tutti d’accordo dunque: vendiamo all’estero.

La domanda che ci facciamo oggi, dunque, è: come affrontare l’ingresso nei mercati esteri partendo dalla base dell’attività, ovvero dal nome del vino?

1. Il nome di un vino racconta l’azienda (ma all’estero tutto cambia)

Ogni bottiglia deve raccontare una storia ed evocare emozioni, e per farlo il suo nome, nella più parte dei casi, corrisponde al cognome della famiglia produttrice, oppure è un nome geografico legato alle zone specifiche o alle località di coltivazione, oppure è un nome di fantasia che richiama un aspetto caro all’azienda. Tutto bene per il mercato italiano.

Ma, quando si va all’estero, ci sono delle regole: come sottolinea Wine Intelligence in un recente studio, c’è una diretta corrispondenza tra la semplicità di pronuncia di un vino e la propensione all’acquisto da parte del consumatore.

Ora, è vero che dal punto di vista economico alcuni mercati sono più maturi di altri e in alcuni Paesi, come gli Stati Uniti o il Giappone, i nostri prodotti sono presenti già da alcuni anni, ma la distanza linguistica appiattisce queste differenze,è tale da far passare la maturità economica del mercato in secondo piano. La lingua diventa quindi un elemento determinante nel definire l’approccio a un Paese, fa entrare in gioco logiche fonetiche e semantiche che diventano preponderanti e che, se approcciate nel modo sbagliato o superficiale, possono da sole decretare l’insuccesso dell’avventura commerciale di quel prodotto. Alcuni nomi sono assolutamente impossibili da pronunciare all’estero: per quanto cari all’azienda, piacevoli in italiano, all’estero sono un fallimento assicurato.

È la storia del Tocai Friulano, che durante l’Expo 2016 di Milano si è fatto notare per la sua particolare impronunciabilità per il pubblico cinese, canadese e statunitense (Dovatu.it portale informativo e d’inchiesta, 2016). Un altro esempio ci viene dai toponimi. Un vino chiamato “Casale dei Papi” e uno chiamato “Casale dei Principi”, se per il mercato italiano sono senza dubbio chiaramente distinguibili, lo stesso non si può dire per il mercato russo o quello cinese. Per quanto diversi possano essere i vini, anche in maniera sostanziale (bianco e rosso, fermo e frizzante), per un pubblico senza grande cultura un “Casale” è un “Casale” e il rischio di confusione elevatissimo. Altro esempio si trova nella denominazione per cognome della famiglia, cosa comune a molte zone in cui la produzione vinicola è appannaggio di una sola o di poche famiglie: l’elemento distintivo tra i vini è solo il nome di battesimo del produttore ma all’estero questa sottigliezza difficilmente viene percepita. Un caso per tutto è il Barolo Marziano Abbona vs quello di Annamaria Abbona. In sintesi, anche se il consumatore è intenzionato a comprare un determinato vino, non sempre riuscirà a farlo causa a mancanza di un suo nome veramente distintivo.

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Se, al tempo stesso, un nome non può dire tutto, di certo scegliere il nome giusto significa creare i presupposti per il successo sul mercato ed evitare clamorosi autogol.

2. La comunicazione del vino è piatta, il nome fa la differenza

La stragrande maggioranza dei produttori vinicoli, nell’attività di comunicazione, insiste su un unico concetto: la bontà del proprio vino. Questo sicuramente all’estero, ma anche in Italia. La bontà, la qualità sono fondamentali, certamente, ma se andiamo a guardare i driver di acquisto da parte del consumatore, la realtà è piuttosto sconcertante: facendo una media di tutte le ricerche che trovate sull’argomento, le variabili che influenzano principalmente l'acquisto di vino sono il prezzo, la provenienza e il brand. Ebbene, in questo panorama ben poche sono le case vinicole che declinano la comunicazione sulla qualità rispetto al prezzo di vendita (“è vero, costo tanto, ma ti spiego anche perché”), o che investono pesantemente su provenienza o il proprio brand.

Un nome distintivo può aiutare la strategia di comunicazione, dando il la alla generazione di contenuti incentrati sul prodotto e già di per sé evocativi di un determinato territorio. Un esempio per tutti è il “Plumbago” di Planeta, un nome di fantasia che, foneticamente, richiama il sapore intenso del Nero d’Avola, facile da pronunciare ovunque, facile da ricordare e pronto a essere sfruttato per raccontare l’ennesima sfaccettatura dell’azienda siciliana.

La distintività del nome è un aspetto centrale: del vino si parla, del vino si discute, è un prodotto sociale, si consuma in compagnia, si consuma con il cibo. Cosa è meglio di un nome veramente distintivo per rispondere al vero bisogno del consumatore, uno status elevato e distinto?

3. La creatività vale 1/3

C’è anche un rovescio della medaglia (come sempre). Dal punto di vista strettamente tecnico (e questo è il nostro lavoro) la creatività pura non serve a nulla. La creazione del nome non è un problema creativo e, in quanto a importanza, la creatività pesa circa 1/3 sul totale.

Innanzitutto un nome non può nascere a tavolino, ma deve sempre originarsi dalla storia dell’azienda, dalle sue persone, dalle sue aspirazioni, e creare una continuità con il passato, pur denunciando eventualmente una rottura (perché ad esempio le strategie di posizionamento lo richiedono).

Ma soprattutto, un nome si scontra sempre con una realtà commerciale e legale. È quindi importante abbinare la ricerca creativa – il cui scopo è generare un nome che colpisca e che si stacchi dal gruppo – alla piena disponibilità legale, dei nomi a dominio, della commerciabilità. In questo modo si eviterà di concentrarsi su concetti o strade associative che non sono percorribili.

4. Il rischio del deposito in malafede del marchio è dietro l’angolo

I produttori di vino, primi fra tutti i più frettolosi di ampliare la rete commerciale, spesso iniziano a vendere i propri vini all’estero:

  • senza effettuare verifiche di preesistenza;
  • senza tutelarsi dal punto di vista del marchio (questo purtroppo avviene spesso anche quando il mercato di destinazione è solo l’Italia).

I rischi si immaginano facilmente:

  • non effettuare verifiche di preesistenza rischia di vanificare gli investimenti nell’immagine del vino in quanto si potrebbe scoprire l’esistenza di una etichetta con lo stesso nome (oppure di un nome molto simile) solo dopo aver investito su un determinato mercato, con l’obbligo di ritirare il prodotto o cambiargli nome e etichetta pur di entrarvi comunque;
  • non tutelarsi dal punto di vista del marchio può non rappresentare un ostacolo inizialmente, ma nel breve periodo un diretto concorrente o – in alcuni casi – lo stesso distributore potrebbe depositare un marchio in malafede, utilizzarlo come arma di ricatto e obbligare l’azienda a un costoso dietrofront.

Le forme di tutela sono molte, prima fra tutte il deposito di un marchio di impresa (il nome dell’azienda, del vino, dell’etichetta). Un caso eclatante a riguardo ci viene offerto dall’etichetta francese “Castel”, che trovate poco sotto.

Un focus sulla Cina: analisi, strategie vincenti e best practice

Come per tanti aspetti, anche per il naming del vino il mercato cinese rappresenta un estremo: è una economia recente quindi a rapidissima crescita (il Sole 24 Ore riporta una crescita di questo mercato del +32,7% nel periodo gennaio-novembre 2016 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente). La cultura del vino in questo Paese è agli albori e quindi i nostri prodotti sono ancora praticamente sconosciuti (insomma, una prateria), nessun Paese potrebbe essere più lontano dalle logiche europee, sia dal punto di vista del business che da quello della lingua.

Convivono quindi, nell’approccio al brandnaming per la Cina, due temi: uno linguistico e uno legale (tutela del business).

Sul tema linguistico occorre dire che il cinese è una lingua logografica, cioè a ogni ideogramma corrisponde una sillaba e un significato specifico: ogni carattere è quindi, in linea di massima, una parola (gli ideogrammi sono circa 46.000). I marchi occidentali vanno quindi traslitterati, cioè trasportati nel sistema linguistico cinese (operazione piuttosto complessa). Le traslitterazioni possono essere di tre tipi:

  • fonetiche (mantengo il suono ma perdo il significato), come per Motorola che diventa “MO-TUO-LAO-LA”
  • (STROFINARE- SOSTEGNO-LAVORO-TIRARE);
  • concettuale (mantengo il significato ma perdo il suono), come per Apple che diventa “PÍNG-GUǑ” (MELA-FRUTTO);
  • concettuale e fonetica (mantengo il suono e trovo un significato allineato all’originale, o addirittura esaltativo dei suoi valori), come per Nike “NAI-KE” (RESISTENZA-PERSEVERANTE ), molto difficile da effettuare.

La sonorità italiana, il mondo del food, del lusso legato all’eccellenza sono senza dubbio premianti nel mercato cinese, quindi una traduzione esclusivamente di significato può essere penalizzante. Al contrario una esclusivamente fonetica rende il nome difficile da ricordare e lo svuota di significato.

Sul tema legale e della tutela del business, diciamo solo che tanto distante è il mercato cinese a livello di logica di business e cultura della risoluzione delle controversie che tanto più qui è fondamentale tutelarsi prima di iniziare a operare.

Il caso più eclatante è, come anticipato sopra, quello della Castel Frères, un produttore francese entrato nel mercato cinese nel 1998. Poco dopo il suo ingresso, il marchio "卡斯特" (pronunciato: "kǎ si te") venne registrato da un privato cittadino cinese e immediatamente utilizzato. Quando l’azienda francese provò a registrare il proprio marchio, la domanda venne rifiutata. Questo fatto diede il via a una serie di vicende giudiziarie che culminarono nel 2012 con una sentenza del tribunale cinese che obbligò la Castel Frères al risarcimento nei confronti del privato cittadino cinese per circa 5 milioni di euro (successivamente ridotti a 75.000 euro) in quanto tutte le importazioni in Cina del gruppo Castel risultarono contraffazione.

Ecco allora un accenno a cosa fanno i player più organizzati e lungimiranti: la terza via.

Alcuni seguono alla lettera i consigli del Chinese Alcohol Bureau che consiglia di cambiare del tutto il nome: “Un vino è veronese? Chiamatelo Romeo o Giulietta”. L’evocazione e l’italianità sono assicurate, insieme a un nome facile da pronunciare o ricordare. È quello che ha fatto il gruppo Caviro, con i suoi “Monnalisa” e “Leonardo”.

Zonin ha fatto un passo in più con il suo “Velluto”, ovvero花露Wei Lu, rugiada floreale, associando a un nome semplice e piacevole un significato attinente, che – pur differente – è gradevole anche in italiano.

Abbiamo affrontato in profondità questo argomento durante il convegno del Consorzio Tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe e Dogliani svoltosi il 14 febbraio 2017. Se volete saperne di più, l’evento sarà ripetuto presso il Consorzio Tutela Vini Valpolicella il prossimo 28 marzo, in collaborazione con Società Italiana Brevetti, consulenti in proprietà intellettuale.


Vi lascio con un ultimo punto di attenzione: tutto evolve di un vino nel tempo, il lettering, il logo, l’etichetta, il packaging, ma il nome resta uguale; è patrimonio dell'azienda, la memoria del prodotto, dell’insegna, della società, acquisisce diffusione, importanza quanto più a lungo si trova sul mercato e ne guadagna in riconoscibilità agli occhi del consumatore. Quindi, meglio sceglierlo bene, con attenzione e lungimiranza.

Gianluca Billo - Managing Director Nomen Italia

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