Quando il cliente sbaglia: 7 richieste fuorvianti nel processo di creazione del nome di prodotto

Dopo tanti anni di esperienza nella creazione di nomi per aziende e prodotti, quali richieste sostanzialmente sbagliate o fuorvianti fanno le aziende? Spesso si tratta di richieste semplicemente ingenue, che vengono rapidamente fatte rientrare, ma non in tutti i casi il cliente cambia idea e il nostro mestiere diventa (inutilmente) difficile. Eccone alcune.

1 “Voglio un nome bello a tutti i costi”. Per prima cosa il bello è soggettivo: un nome non è universalmente bello ma piacerà solo ad alcuni e non è detto che questi alcuni saranno la maggioranza. Ma soprattutto il processo di naming è lungo, quindi non bisogna assolutamente innamorarsi dei nomi (per quanto soggettivamente belli) che emergono nella sua fase iniziale perché potrebbero non essere disponibili come marchi o suonare sbagliati in altre lingue. E qui tocchiamo un altro importante mito da sfatare, forse il principale: inventare un nome destinato a diventare un marchio forte non è questione di sola creatività, anzi. I rischi del fai-da-te nel brand naming sono altissimi, e anche i grandi sbagliano. Recentissimo l’esempio della Hyunday Kona che viene venduta in tutto il mondo ma il cui nome, in portoghese (quindi anche in tutta l’area del Sudamerica in cui si parla questa lingua), suona pericolosamente simile a una volgarità. Questo è il contrattempo tipico di un approccio al naming superficiale che ignora la componente linguistica internazionale del nome.

2 “Voglio un nome corto, così sarà più semplice da ricordare”. Sbagliato. Il nome corto può senza dubbio colpire ma proprio perché corto è più difficile da ricordare (basta sbagliare una lettera e sarà impossibile recuperarlo). Inoltre legalmente è ormai altamente improbabile averne la disponibilità nella classi più affollate: su milioni di marchi registrati in tutto il mondo (in perenne crescita), le similitudini con marchi esistenti per nomi molto corti (si parla di una o due vocali) saranno con tutta probabilità talmente tante che il marchio relativo risulterà molto debole e difficile da difendere. Non parliamo solo di concetti astratti, ma di costi legali che possono diventare in breve tempo ingenti, in seguito alla ricezione di lettere di diffida o cause scaturite dopo la registrazione e l’utilizzo del marchio.

3 “Voglio un nome comprensibile”. È vero che la creatività non è tutto, ma viceversa un nome comprensibile è spesso anche descrittivo, e un nome descrittivo non si potrà tutelare adeguatamente. Poi un nome potrà essere comprensibile solo in una lingua, non certo in tutte quelle dei paesi di esportazione (ormai chi produce solo per il mercato nazionale?) e se si desidera un nome diverso per ogni paese di destinazione (o anche solo i principali), tanti auguri (il budget schizzerà alle stelle e la gestione dei brand diventerà incredibilmente onerosa).

4 “Voglio un nome che dica tutto”. Ed ecco la tendenza opposta: il cliente che vuole troppo; vuole un nome corto, memorabile, che funzioni a livello internazionale, difendibile, comprensibile e distintivo e anche un po’ magico (e magari con un budget limitato). La via d’uscita qui è stabilire delle priorità, i concetti imprescindibili e i concetti secondari che il nome nuovo dovrà evocare. Abbiamo una brutta notizia, per di più: il nome magico non esiste. Un nome diventa magico con il tempo, con gli investimenti nei suoi confronti, quando è rivestito dalla parte grafica, dai colori, dai suoni degli spot pubblicitari, dal payoff, con il nascere di significati e associazioni nel tempo. Il nome non nasce magico e pretendere che lo faccia significa perdersi per strada.

5 “Il nostro competitor ha un nuovo nome che ci piace: ne voglio uno così anche io”. Eccoci arrivati ai “me too”, ovvero quei nomi che seguono le tendenze, spesso avviate da una azienda concorrente. Perché imitare? Rispondiamo noi. Ogni azienda è diversa, i suoi valori sono diversi, i prodotti sono diversi, spesso molto diversi. Il desiderio di imitare un concorrente fa sì che questa innovatività o qualità insita nel prodotto non venga trasferita correttamente al nome. Lo stesso dicasi per le tendenze dettate dal web e il desiderio di suonare alla moda: nella stragrande maggioranza dei casi il tempo impiegato per registrare e iniziare a utilizzare il nome è già troppo lungo per sfruttarne le potenzialità, prima che la tendenza passi di moda.

6 “Voglio quello che vogliono i miei clienti” I focus group sono strumenti importanti per orientare l’attività del marketing, ma non devono guidare la scelta in maniera decisiva. Non finiremo mai di ripeterlo: la scelta del nome non deve essere fatta ricadere sui consumatori finali; è il marketing che, sulla base dei suoi obiettivi, deve guidare il processo con coraggio fino alla fine e scegliere il nome. I focus group possono addirittura tendere dei tranelli ai marketing manager, soprattutto se questi ultimi si concentrano, come detto sopra, sulla comprensibilità del nome. I clienti a volte arrivano da noi con i risultati del focus group in mano e ci dicono che il nome che abbiamo proposto non è comprensibile. È ovvio che sia così, se ad esempio in quel caso l’obiettivo era essere innovativi e dirompenti. Dal nostro punto di vista, il manager che sa fare il suo lavoro è quello che prende atto dei risultati del focus group ma decide con lungimiranza e fedeltà al suo piano. Negli anni ne abbiamo visti alcuni, e il mercato ha dato ragione a loro. Anche il crowdsourcing può essere un’arma interessante, ma solo in fase iniziale: bisogna sempre che i nomi raccolti affrontino l’intero processo tecnico e legale.

7 “Voglio un nome che comunichi italianità a tutti i costi” Da quasi dieci anni l’italianità sembra non mancare mai tra gli elementi che devono caratterizzare un nuovo nome di prodotto: l’Italia è sinonimo di qualità, artigianalità, stile in tutto il mondo. Ma è poi così vero? La risposta, ci dispiace dirlo, è no. L’Italia è e può essere senza dubbio sinonimo di questo, ma è anche riassunta da un immaginario collettivo – ahinoi – meno lusinghiero ma più accattivante: l’Italia è (prima dello stile e dell’artigianalità) la pizza, il mandolino e la mamma, e per di più una mamma cicciottella e comica, che non indossa Prada e non guida Lamborghini. Un esempio? Il brand di pizzerie più famoso del momento in Francia (e quindi non andiamo neanche tanto lontano) si chiama Big Mamma (ebbene sì: il nome è per metà inglese e la parte italiana riguarda proprio lei, l’immancabile). L’immaginario è chiaro sin dall’apertura del sito https://www.bigmammagroup.com/fr/accueil: mentre cucinano, i pizzaioli (rigorosamente napoletani) vociano, fanno battute, cantano in coro come nel miglior stereotipo planetario. Agli italiani può non piacere, ma ai francesi sì. E il nome funziona.

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