Quanto inglese nell’italiano! Anche nel brand naming?

Secondo l'ultima ricerca di EF Education First, l'Italia si classifica 34esima su 88 paesi al mondo analizzati per la conoscenza dell'inglese, dietro (tra gli altri) a Bulgaria, Grecia e Romania; risulta inoltre che solo il 16% della popolazione italiana parli più o meno bene l'inglese. Allora perché le parole inglesi sono così abbondanti nel nostro vocabolario, scritto e parlato? Perché siamo continuamente raggiunti da parole come call, meeting, brief, ma anche location, tethering e party, alle quali ci siamo nostro malgrado abituati a forza di sentirle? E perché si stanno facendo strada altre aberrazioni linguistiche come "grazie per supportarmi in questa questione", orrida traduzione di "thanks for assisting me in this matter" (whaaat?!), che mutuano senza ritegno una forma corretta in inglese ma scorretta, scorrettissima in italiano?

Si sono già espressi in molti sull'argomento, una fra tutti Annamaria Testa, che, nel suo intervento al TEDx di Milano di qualche anno fa, ha appassionato il pubblico e riscosso enorme successo, deridendo e condannando questa epidemia. Nonostante il suo intervento, ahimè, l'epidemia non si è fermata.

Da straniera, e quindi più sensibile a queste storture in un idioma non mio ma che fa parte del mio quotidiano ormai da anni, sentire queste note stonate nel tessuto di una lingua affascinante e complessa, oltre che romantica e pluristudiata, fa male. Molto male.

Pare che l'italiano abusi della mutuazione di termini inglesi per lusso e non per necessità. Nella stragrande maggioranza dei casi non manca cioè un termine in italiano che obblighi all'utilizzo in un vocabolo inglese ma è per vanità, lusso, che lo si utilizza. E l'italiano medio lo fa per darsi un tono, perché fa cool - appunto -, perché fa tendenza. Senza contare la comodità (o è pigrizia?) di utilizzare termini inglesi tipici di alcuni settori lavorativi come l'IT (che non si chiama più informatica da tempo) o la finanza (o dovrei dire il finance?).

Non fraintendetemi: non sposo neanche l'atteggiamento opposto come quello della Francia - il mio paese di origine - dove la lingua nazionale è protetta dalla legge, o meglio da una apposita commissione deputata alla difesa (anche se letteralmente sarebbe l'arricchimento) della lingua francese: la Commission d’enrichissement de la langue française, istituita da Charles De Gaulle nel 1966. Se questa istituzione ha vinto molte battaglie combattute nell'interesse del patrimonio linguistico nazionale, lo scontro con termini quali hashtag, dark web o fake news (rispettivamente ribattezzati mot-dièse, internet clandestin e infox) ha dato come risultato una vittoria solo apparente. E alcuni termini, come smartphone, hanno iniziato a farsi strada nel parlato, soprattutto tra il pubblico giovanile.

Contestualizzando la questione nel mio ambito lavorativo, mi chiedo: come si riflette questo atteggiamento nel brand naming? Siamo di fronte allo stesso fenomeno? Le lingue si comportano tutte allo stesso modo - esterofilo e soprattutto anglofilo - oppure anche nei marchi esistono lingue più conservatrici e meno?
Rispondere non è semplice, e non è solo questione di lingua più o meno conservatrice.

Innanzitutto bisogna pensare al mercato di riferimento. L'inglese non sarà una lingua parlata fluentemente in tutto il mondo ma è sicuramente quella più trasversale. Definire un nome e registrare un marchio uguale in tutto il mondo è molto più vantaggioso ed economico rispetto a differenziarlo per paese o cluster di paesi, e se un termine inglese (o quasi inglese, che lo ricordi, che lo richiami) mette tutti d'accordo, ecco che questa via è da privilegiare da parte delle aziende internazionali o che hanno l'ambizione di diventarlo. I brief per la creazione di brand name sui quali lavoriamo per questo tipo di clienti spesso indicano come preferenziale la lingua inglese o danno la possibilità di avventurarsi con l'italiano solo se universalmente comprensibile.

E poi bisogna considerare i costi di advertising, che fanno propendere i brand verso la realizzazione di un unico spot che vada bene per tutti i paesi target (avete notato? Quattro parole inglesi in mezza frase… anche noi ne subiamo il fascino!). Qui l'inglese viene spesso associato alla lingua originaria del brand oppure è l'unica utilizzata. Prendiamo i profumi (in italiano fragrances, naturalmente): come si spiegherebbe che tutti i più grandi brand di profumeria, anche quelli che più francesi non si può, creino spot dove la lingua prevalente è quella inglese? Guardare per credere questa galleria degli spot profumi trasmessi in Italia nel 2019: il mio preferito è Scandal di Jean Paul Gaultier la cui chiosa finale è "The new eau de parfum by Jean Paul Gaultier" dove la frase è chiaramente in inglese, ma solo 3 parole su 9 lo sono e sono quelle meno importanti: The - new - by.

Mi conferma tutto questo l'ultimo Nomenscope, l'analisi delle tendenze morfologiche e semantiche nei marchi registrati in Francia effettuato periodicamente da Nomen. In realtà l'inglese, anche in Francia, appare eccome. O meglio, se ne mutuano le sonorità e le lettere per facilitare l'utilizzo del marchio a livello internazionale.

Insomma, quando entra in gioco la possibilità di decretare il successo o l'insuccesso di un brand a livello mondiale, anche la lingua più conservatrice deve piegarsi alle dure leggi del mercato.

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